Sunday, May 20, 2012

Se Aristotele fa l'indiano

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Invitato per un ciclo di conferenze settimana scorsa a Parigi, Galen Strawson, British Philosopher appartenente alla tradizione più genuinamente analitica, autore di monografie su metafisica e causalità, figlio dell’ancora più analitico Peter Strawson, insomma, il non plus ultra del filosofo canonico anglosassone, decide di parlare di “Coscienza, fosforescenza e svaprakaasa”. Cos’è?

L’incipit del discorso lascia il pubblico stupito e impreparato: “Aristotele, Dharmakirti, Dignaga, Cartesio e Locke avevano ragione: la coscienza comporta la coscienza di essere coscienti”. L’affermazione è banale: è il punto di partenza, di dibattiti infiniti sul regresso altrettanto infinito degli argomenti sulla coscienza. Insomma, il contenuto è il solito, ma il packaging è quello del nuovo millennio: e chi aveva mai sentito infatti un filosofo al centro dell’Impero Occidentale citare nomi delle tradizioni filosofiche delle sue ex-colonie?

In realtà, l’India tra il quinto e il settimo secolo, quando fiorisce la scuola buddista di Dignaga e del suo principale commentatore, Dharmakirti, è tutto tranne che una colonia: è una cultura complessa e matura, in cui si sfidano tradizioni di pensiero, come il buddismo e l’induismo. Durante quella che è considerata l’età d’oro della filosofia indiana, si compie, grazie agli autori citati da Strawson, una vera svolta epistemologica, grazie alla quale l’attenzione si sposta dalle questioni strettamente religiose e metafisiche, alla comprensione di cosa costituisce una forma valida di cognizione o pramana. La svolta epistemologica di Dignaga non è però sufficiente a creare un ponte con la filosofia occidentale. Per semplificare al massimo, il più grande divario tra la filosofia orientale e quella occidentale è la separazione ossessiva, nella nostra tradizione, tra io e mondo, tra soggettivo e oggettivo, natura e cultura, coscienza e materia inerte, laddove la filosofia orientale non separa i due piani, rappresentando invece il nostro rapporto col mondo come circolare invece che verticale: non osserviamo dall’alto un mondo inerte: ne siamo parte, e circolarmente lo percorriamo e ne siamo attraversati.

Il svaprakaasa, menzionato nel titolo della conferenza di Strawson, è la coscienza come fosforescenza, uno stato dell’essere che ha una luminosità speciale: illuminandosi illumina le cose intorno a sé e, viceversa, per far luce sulle cose intorno a sé, fa luce su sé stesso. La coscienza così intesa è una proprietà delle cose tutte, non limitata ai soggetti. Ogni cosa può “riflettere” in questo senso la luce di un intelletto che la pensa.

Strawson, come David Chalmers, difende una posizione anti-riduzionista sulla coscienza, con un tocco di new age, per cui la materia e le cose tutte potrebbero essere potenzialmente coscienti. Ma nella sconfinata bibliografia di David Chalmers dedicata alla coscienza non c’è nemmeno una menzione di filosofi indiani. Ciò che è radicalmente nuovo è inserire nel cuore del canone occidentale lo svaprakaasa, il pramana e altri concetti affini.

Cosa stupisce tanto di quest’operazione intellettuale? In primo luogo, la sua formidabile ingenuità. Nessun filosofo sgamato post-moderno, che sa che il mondo è socialmente costruito, avrebbe osato importare così acriticamente nozioni che vengono da un mondo politico e culturale lontano nel tempo e nello spazio. Il post-moderno ammonisce: non esistono i concetti in quanto tali che, come prodotti di consumo, si possono trasportare da una realtà all’altra!

Eppure l’ingenuità di Strawson ha il vantaggio di portare alla ribalta un linguaggio che, nel contesto del dibattito dominante, non ci era familiare. Certo, nell’era di Wikipedia è più facile familiarizzarsi con lo svaprakaasa e forse banalizzarlo, e postmoderni e specialisti di filosofia indiana inorridiranno davanti a simili semplificazioni. Ma se la filosofia occidentale non vuole asfissiare, se vuole togliersi quel centralismo che nell’era globale non è altro che provincialismo, forse fa meglio a non imbarcarsi in interpretazioni e disvelamenti di quel che davvero vogliono dire i pensatori di altre tradizioni, ma assumere il loro bagaglio di nozioni, come si dice, at its face value: così come sono, magari banalizzandole, tradendole, ma facendo lo sforzo di allargare il proprio dizionario filosofico nella direzione del mondo di domani. Puro politically correct? Può darsi, ma le parole sono importanti, e quel che diventa lecito dire e non dire cambia il corso del pensiero. Dignaga insieme ad Aristotele, pur banalizzato, storpiato, malinteso, è un passo avanti per comprendere i problemi di sempre con lo sguardo nuovo di un pensiero globale.

Forse il realismo ingenuo del filosofo analitico, che prende i concetti così come sono, senza cercare di disvelarne la segreta natura di dispositivi di dominazione, è l’atteggiamento giusto per ripensare la filosofia in chiave globale, rispettando l’integrità di quei prodotti fragili che sono le idee filosofiche ed aiutandoci, anche eticamente, a comprendere che le questioni che tormentano i pensatori di tutto il mondo da sempre sono più simili di quanto avevamo creduto.


Sul tema della filosofia globale, avevo organizzato una conferenza a New York nel 2011, all'Istituto Italiano di Cultura : Global Humanities. Il dibattito era su temi affini, e in generale, su come le scienze umane, così radicate in tradizioni e valori locali, possano globalizzarsi. Gli archivi del dibattito con tutti i testi presentati sono disponibili online a: http://www.interdisciplines.org/conferences/Global-Humanities